venerdì 12 luglio 2013

MARIO TESTOSTERONE


 

Alcuni di voi si chiederanno come mai uno che viene dalla città delle 3T sia finito a Okinawa. Ecco,a grandissime linee, la mia piccola odissea.



Quando, oltre due anni fa, ci fu il terribile terremoto/tsunami, ero a Kyoto, in procinto di andare a Tokyo. Appena nella guest-house si seppe di Fukushima ci fu un fuggi-fuggi di massa dei gaijin, francesi in prima linea (hanno il nucleare, sanno di quale rogna si tratti). Ero al mio primo Giappone, il sogno di una vita, dunque ci voleva più di un disastro nucleare per smuovermi dal mio progetto di viaggio. E poi a Kyoto mi sentivo relativamente sicuro, a una distanza sufficiente dall’orrore. All’ostello si stava abbastanza bene, nonostante lo staff avesse la mania di fotterti/mi i cibi dal frigo. C’era un viavai molto internèscional, sembrava un porto di mare. Una sera, mentre cucinavo, sentii qualcuno parlare in portoghese. ‘Mario, piacere. Sono mezzo brasiliano e mezzo messicano’. Diventammo amiconi in mezzo minuto. Lui aveva ventidue anni, meno della metà dei miei. Di bell’aspetto, con un fisico palestrato, faceva surf e karate. ‘Ero a Tokyo, quando è scoppiato il casino, sono scappato correndo. Ci ho pure lasciato una bici nuova di zecca.’ Non ci misi molto a capire che Mario era pazzo per le giapponesi. Abbordava ogni ‘nuova’ fanciulla che compariva nell’ostello tre secondi dopo che l’aveva fiutata. Lo faceva con tattica tutta brasileiro-mexicana, non eccellente, in termini di risultati, in Giappone. Una sera beccò una fanciulla di Chiba decisamente estroversa (fu lei ad abbordarlo), ma, scoperta n°2, Mario non era molto bravo a chiacchiere. Ragazzo d’azione (voleva trombare un minuto dopo aver conosciuto la new entry), più che di ‘inutili’ parole. Dopo tre minuti non sapeva più che cosa dire alla tale, la quale dirottò su un biondiccio inglese seduto alle nostre spalle. Se lo trombò pure, come dimostrarono le occhiaie dei due il mattino seguente. Come Mario lo capì, andò dal suddito della Regina e gli regalò uno scappellotto sulla nuca. Il suddito fuggì dall’ostello. Mario, come dicevo, era uomo d’azione, non di poesia fritta.



Un altro compagnuccio di scorribande conosciuto in quell’ostello era tal Yon, l’esatto opposto di Mario. Uomo giapponese sulla sessantina, un fricchettone stagionato senza fissa dimora dopo che la moglie lo aveva sfanculato. Meditativo, metodico, risparmioso, non aveva carte di credito né e-mail, ma ogni anno amava andare a svernare in una guest-house di Bangkok dove fumarsi immensi cannoni indisturbato. Lontano da mogli e da troppe regole giapponesi. Ogni tanto uscivamo, noi tre, e dopo due minuti Yon se ne pentiva: l’esuberanza circense di Mario era eccessiva. Da buon atleta, il giovane latinoamericano si nutriva di banane. Ne aveva sempre qualcuna con sé, anche in strada. Nei momenti di passione improvvisa – aveva avvistato qualche fanciulla spettacolare – puntava la banana verso la medesima, impugnandola ad altezza inguinale. A Kyoto, uno delle città più tradizionaliste del Giappone. Qualche ragazza rideva (e non andava oltre), altre fuggivano schifate dal gaijin hentai. Un giorno eravamo assieme in un tempio, io fotografavo, lui avvistò una giovane di bell’aspetto. Con una mappa sotto l’ascella, le si diresse incontro, fingendo di essere un turista in cerca di qualcosa (realtà sacrosanta). Come la madre-scorta della fanciulla lo vide arrivare, lo scacciò a male parole. Fu quella la prima volta, dopo oltre un mese di Giappone, in cui capii che anche i giapponesi, se messi alle strette, sanno incazzarsi. A Kyoto ci rimasi tre settimane, un paio delle quali in compagnia di Mario Testosterone. Anche a me la cosina è sempre piaciuta, per carité, ma la tenacia monomaniacale di Mario, ai limiti dell’ossessione, batteva dieci a uno i periodi più pornografici della mia esistenza. Mario, un vero segugio dell’altro sesso. Con scarsissimi successi, in terra giapponese.


Stanco dei risultati di Tokyo e di Kyoto (zero rotondo), Mario decise di andare a Okinawa. Lì si sarebbe concentrato sulla sua altra grande passione, il karate. ‘Okinawa?, gli chiesi sorpreso. Nonostante a scuola avessi sempre preso diecipiù in geografia, manco sapevo che fosse in Giappone. L’unica cosa che sapevo è che gli americani vi avevano combattuto la famosa battaglia. E, sebbene da adolescente avessi praticato il karate, santa ignoranza, non sapevo che questa disciplina era nata proprio da Okinawa. Mentre Mario acquistava il biglietto per Naha, io corsi a vedere on-line un po’ di immagini di ‘sta Okinawa. Spiagge con acqua cristallina, sembravano le Maldive. L’ostello prenotato dal mio amico a Naha costava la metà di quello di Kyoto. Nell’arcipelago la temperatura, già agli inizi di aprile, era molto più elevata di quella gelida del Kansai. Quattro giorni dopo atterravo a Naha. Prendendo dall’aeroporto il monorail diretto alla guest-house fui colpito da due cose: tre buffe vecchiette passeggere, gioiose (una rarità sui treni del resto del Giappone), che parlavano una lingua strana (ancor più strana dello stranissimo giapponese); la mancanza di spiagge Maldive-style. Mi sembrava di essere a São Paulo in una giornata di pioggia, tra condomini e cemento assortito. Che (cazzo) ci faccio qui?®


Insediatomi all’ostello, incontrai il mio amicone. Aveva già scovato qualche dojo e stava già insidiando una fanciulla, una commessa di un negozio di ninnoli lungo Kokusai-dōri, la via per turisti gonzi. Gran pezzo di commessa, come i miei occhietti poterono certificare il giorno seguente, quando Mario mi portò a vedere la ‘conquista’. In realtà, però, la tale non era stata conquistata nemmeno un po’. Aveva un fidanzo ufficiale a Tokyo ed era a Naha per lavoro. Si era lasciata andare a un po’ di amicizia con il mio amico muflone, ma non gli aveva concesso alcunché di tangibile (‘Ci sto lavorando’). Mario la inseguì come uno stalker per giorni, finché una sera la trovò al tavolo di un caffè mentre chiacchierava con un turco (anche i saladini, si sa, hanno occhi per vedere), e preso da un attacco di gelosia la sfanculò. Questo fu solo il primo episodio di una collezione molto lunga. Non vorrei dilungarmi, magari un giorno trasformerò questo raccontino in un libro, tanta e tale è la materia succosa. Per ora mi limiterò all’epilogo. In tre mesi di permanenza in Giappone, nonostante il bell’aspetto, Mario non riuscì a raccattare una sola fidanza. La tecnica scimmiesca dell’assalto, di grande successo nella giungla messicana (al suo paese Mario arrivava con il fuoristrada del padre, apriva la portiera, faceva un fischio da capostazione e qualcuna giovane con le idee chiare saliva al volo in macchina) qui non funziona. L’unica tacca che il mio amico riuscì a incidere nell’albo dei (mezzi) successi fu quella di una singola sera, quando Mario conobbe l’amica di un’amica. La giovane, caruccia, di Tokyo, sembrava interessata al surfista-karateka. Parte di un gruppetto che aveva già iniziato a bere di brutto, la tale incocciò Mario al rientro dall’allenamento. Sudato, si fece una doccia, che nell’ostello è di fianco alla cucina e alla sala comune per le chiacchiere collettive. Il mio amico, pazzo come un cavallo, fece uno strip-tease davanti a tutti e, roteando la minchia latina con una mano, invitò la giovane a farsi una doccia con lui. Il fatto, oltre a far rotolare tutti i presenti per terra dal ridere, è entrato negli annali dell’ostello (per fortuna in quel momento la proprietaria non era presente, altrimenti da allora Mario avrebbe dormito in strada). L’evoluzione naturale della doccia fu una notte alcolica al karaoke (Mario non beveva una goccia d’alcol), fino all’alba, completata con un pompino estorto quasi a forza (la giovane era sbronza e semi-incosciente) sul tetto della guest-house. Il giorno dopo, però, con il mal di testa, la ‘mia ragazza’ (così l’aveva già battezzata Mario) non ne volle più sapere del ‘nuovo’ fidanzato. Mario se ne tornò in Messico, dopo tre mesi di intenso tacchinaggio, con uno zero pressoché assoluto (i pompini alcolici estorti quasi a forza notoriamente non fanno punteggio). Da allora è tornato a Okinawa una sola volta, ma non ha voluto rischiare: si è portato una fidanza da casa.




4 commenti:

  1. Divertentissimo il racconto di Mario! Ma la domanda sorge spontanea: aveva solo una maglietta?? :D

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  2. no, due! una marron, l'altra azzurra. ma questi sono dettagli che inserirò quando trasformerò il raccontino in un libro.
    complimenti per lo spirito di osservazione, brava!

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  3. Tremendo XD mi sono scompisciata dalle risate XD

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  4. Pensa che io ci ho passato un mese e mezzo assieme...

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